I manuali didattici americani, la produttività della scuola italiana e il cinismo degli studenti

(alla luce della quarantena, ovviamente)

Ho appena finito di leggere un libro di pedagogia e didattica americano, Differentiation and the Brain di Souza e Tomlinson, e come al solito mi rimangono in testa dubbi, domande e stimoli. Il libro è molto interessante, con ricca bibliografia scientifica ma anche con delle idee che mi lasciano piuttosto perplesso. Questo post non è però una recensione del libro, quanto una riflessione, inquieta ed ennesima, su alcuni aspetti della scuola italiana. Quegli aspetti che il titolo lascia intuire, diciamo. NB: il post mi sta venendo più lungo del previsto. La parte veramente interessante, o meno ritrita, è la II, per chi non ha tempo.

I.
Lo scopo del libro è come costruire una didattica attiva, coinvolgente, motivante, che sappia tener conto dei diversi talenti di ogni studente e far sì che ognuno possa dare il massimo. L’accento è sulla personalizzazione, ma è chiaro che si pone gli stessi identici obiettivi di qualsiasi manuale di didattica. E diversi spunti mi sono tornati utili (tralascio quelli che trovo piuttosto eccentrici, perché svierebbero l’attenzione). Dove sono dunque le mie ugge?

Ecco, il punto di partenza è questo: in qualsiasi manuale che abbia letto, italiano o straniero, la progettazione e la realizzazione di un’unità di apprendimento richiede una certa complessità di taglio quasi “ingegneristico”: attività, interazioni, materiali e tante altre cose vanno pianificate, modulate, variate, adattate, ecc. ecc. E il primo pensiero che mi viene in mente leggendo di questa raffinate architetture è: “In molte classi ciò sarebbe impossibile”. Questo può dipendere dal mio naturale disfattismo caratteriale (non sono un ottimista, io), ma può anche essere che forse qualche scampolo di realtà lo acchiappo. Il problema ha due corni, cioé quelli menzionati nel titolo.

Cominciamo dal primo. La scarsa produttività della scuola italiana non è tanto quella dei professori (la cui formazione costituisce una questione che per ora tralascio), ma del sistema. Non sembriamo farci caso, ma il nostro lavoro è organizzato in modo tale da lasciarci poco spazio per la progettazione. Tanto per cominciare andiamo e veniamo dalle classi strutturalmente in ritardo. L’ora di lezione in una classe, se non eravamo liberi nell’ora precedente, comincia in un’altra classe. Questo vuol dire che siamo in ritardo ed in affanno fin dall’inizio. Oltre a questo, i materiali che portiamo di classe in classe sono limitati a quel che possiamo portare sulla nostra persona. Cumulativamente, se abbiamo più classi di seguito (o se non ci fidiamo a lasciare la roba in sala insegnanti). Non è un buon inizio. Anzi, è pessimo, perché molti dei consigli didattici che ho trovato in quel libro presuppongono che io sia padrone della mia classe, delle sue pareti, abbia un armadio e parecchi materiali.

Anche tralasciando tutti i danni che vengono da classi vecchie, diroccate, senza tende, non acusticamente isolate, fredde, calde, con banchi rumorosissimi da spostare, ecc. ecc., è evidente che si pongono dei limiti forti a quel che un docente può verosimilmente realizzare. La digitalizzazione aiuta, ma fino ad un certo punto, anche perché l’efficienza di computer scolastici abbandonati nelle aule e smanacciati da dozzine di mani è spesso piuttosto bassa.

L’altra cosa, e ben più grave, è il cinismo degli studenti. Tutti i manuali americani insistono nella necessità di avere studenti entusiasti. E ovviamente propongono anche mezzi per arrivare a questo risultato (sono americani, non stupidi). E però questo si scontra con una realtà ben diversa che è spesso oggetto delle mie ruminazioni.

Non posso fare a meno di tornare ai miei quindici anni di insegnamento e notare che, tra alti e bassi, gli studenti poco motivati, irrispettosi, maleducati, assenti o dirompenti sono stati tanti. Troppi. E non credo che i nostri studenti siano particolarmente infami. La mia tesi è che gli abbiamo insegnato ad essere così. O, per meglio dire, abbiamo fomentato e coltivato tutti i difetti che, umanamente, si portano dietro anche loro. Un docente che parla agli studenti dicendo che da loro vuole il massimo, che crede in loro, che li porterà ad avere successo, rischia di fare la figura del cretino. O di sembrare D’Avenia.

Quel che gli studenti riconoscono è un sistema di regolamentazione della routine e della disciplina intimidatorio, approssimativo, lento, esemplato più sul processo penale (anche con le farsesche “garanzie” che concediamo) che sulla vita d’aula, la quale a sua volta è una creatura delicata che deve essere quanto più ordinata e tranquilla…anche a costo anche di essere bruschi.

E lo sottolineo: arriva un momento in cui, fatta la tara a tutte le giustificazioni, alla comprensione e alla necessità di convincere più che obbligare, certi comportamenti devono semplicemente interrompersi. Ma per fare questo ci vuole una cornice adatta, cooperativa tra docenti, dirigenti e ATA, una cornice che non c’è, tanto per ritornare a quanto è cadente la scuola italiana, in senso materiale e morale. E soprattutto, se anche l’ordine lo otteniamo lì per lì, senza una scuola appagante intorno, che premia i comportamenti virtuosi (e li premia davvero, non con i voti), otteniamo il silenzio, ma creiamo anche diffidenza e distanza: lo studente italiano medio, infatti, non è uno studente che vuole essere motivato. E’ uno studente che vuole essere lasciato in pace. E la cosa brutta è che ha ragione. Se la scuola è cadente, materialmente e moralmente, i voti ansiogeni e la routine grigia, come gli si può dare torto?

Attenzione, non sto dicendo che non si può fare nulla e men che meno che IO non faccio nulla. Certo che si fa tutto quel che si può. Ma è abbastanza? Secondo me no. So che dovrei parlare innanzitutto dei miei limiti, di quello che potrei fare e invece per una ragione o per l’altra non faccio, ma qui vorrei soffermarmi sui limiti esterni, che l’attuale emergenza ha fatto saltare insieme con tutto il resto (e ora arriviamo al coronavirus).

II.
L’emergenza ha modificato qualcosa di quella schifezza di situazione strutturale che ho delineato sopra. E per certi versi in meglio, per assurdo che possa sembrare.

-Sto lavorando senza voti, ma con tanti giudizi discorsivi. Mi sento molto meglio. Il ritmo è quello dell’apprendimento (sia pure quello ridotto e limitato della DAD), non quello dei voti.

-Cerco di stare dietro ai miei studenti, ma loro sono molto più soli. Se da un lato questa è una iattura (e lo è, è quel digital divide, quell’iniquità di cui si parla tanto), finalmente posso chiedere ai miei studenti di fare da sé, di attivarsi di darsi una mossa. Non posso costringerli, non posso mettere note, non devo dirgli di stare zitti e lavorare (ciò a cui spesso sono costretto): quello che fanno è il frutto della loro responsabilità, non della mia coercizione su di loro. E’ un cambiamento copernicano. Nella fluidità della situazione attuale è affogata senza rimpianti la “didattica difensiva” che tanto ci sfibra nella scuola in presenza. Peccato che i limiti della strumentazione dei miei studenti gettino una pesante ombra su quanto si possano effettivamente attivare, a volte.

-Nell’agitazione dell’emergenza si è finalmente costretti a prendere il toro per le corna e andare all’essenziale. Insieme con la didattica difensiva è colato a picco anche l’enciclopedismo sciocco della scuola italiana: fare tutto, in maniera sequenziale, senza né priorità né gerarchie. Ciao, enciclopedismo, non mi mancherai. Benvenuta, sintesi ragionata. E lo dice uno che nell’erudizione ci crede (ma crede anche nei limiti del cervello umano di fronte al molosso delle Indicazioni Nazioanli).

Per assurdo, in conclusione, mi trovo più vicino a fare cose da “manuale americano” di prima. Pensa un po’.

foto: The White House