Finirla con il duello degli antichi e dei moderni

Ovvero: non ricominciamo con il solito ping pong didattico-pedagogico

Stiamo per tornare a scuola, infine. Io non ho ben capito come, ma si comincia. Questo ovviamente sta ravvivando il dibattito tra gli entusiasti dell’innovazione e i conservatori della tradizione. Si tratta di una querelle rispetto alla quale, devo confessare, comincio a dare dei segni di stanchezza.

Intendiamoci, io non sono neutrale in questo schieramento: a me l’innovazione piace e non sono soddisfatto di come si faceva e si fa scuola alla maniera degli antichi. Il fatto è che nonostante mi compiaccia definirmi “innovatore” (ma questo in sé vuol dire poco, l’innovazione piace a tutti, a parole), c’è qualcosa che nondimeno mi cruccia: da una parte non ricordo di nessun conservatore che si sia mai convinto ad abbracciare l’innovazione didattica grazie alle invettive mie o di qualcun altro, dall’altro i peana dell’innovazione tendono talora ad essere di un ottimistico entusiasmo che, non foss’altro per carattere mio personale, ho difficoltà ad accogliere.

Non volendo nemmeno rimanere con le braccia conserte aspettando di vedere come va questo ennesimo round di boxe pedagogica, io avrei una proposta da fare: lasciamo perdere per un attimo il come (lezione frontale o non frontale, digitale o non digitale, ecc. ecc.) e concentriamoci sul cosa.

Lo dico con una certa punta polemica: vedo in giro troppi discorsi sui massimi sistemi (ne ho fatti una valanga anche io) e troppa genericità. Parliamo di società del XXI sec., di rivoluzioni digitali, di mondo che cambia velocissimo, di neuro-scienze, di perdita della dimensione manuale, del peggioramento degli apprendimenti, di qualsiasi cosa. Raramente invece parliamo di quale dovrebbe essere l’argomento di una lezione e di cosa pensiamo che uno studente dovrebbe aver imparato al suo termine.

Al massimo, qualche volta, ma di solito in maniera piuttosto blanda, accenniamo a quale possibile differenza tra i vari cicli di scuola. Se per caso menzioniamo le singole materie, invece, è solo per dire che non hanno più senso (spoiler: ce l’hanno eccome).

Ribadisco: non che non sia necessario parlare e approfondire tutti quei buoni principi trasversali che servono in qualsiasi materia, però, di grazia, possiamo qualche volta parlare di cose più pratiche e terra terra?

Questo lo dico, stavolta, davvero senza polemica. E’ che se entro nel merito degli argomenti e delle cose da fare, poi mi pongo anche il problema di come farle al meglio, senza stare tanto a domandarmi se sto innovando oppure no. Come non esiste un vento giusto per il marinaio che non sa dove vuole andare, così non esiste alcuna innovazione necessaria se prima non definiamo cosa vogliamo ottenere con la nostra didattica. Non parlo di cose vaghe come “la cittadinanza del nuovo millennio”, “la capacità di adattarsi ad una società in rapido mutamento”, “saper innovare” e altri slogan tanto accattivanti quanto poco sostanziosi, ma di cose molto più concrete.

Per dare un esempio di concretezza, pongo qui una questione rilevantissima per me che insegno italiano (ma ogni docente ne avrà di sue nella sua propria disciplina): la didattica della scrittura. Gli studenti italiani in media non scrivono bene. Secondo le mie personalissime opinione ed esperienza, non scrivono abbastanza e se anche scrivono, non sono generalmente portati a rileggersi e a riflettere su quello che scrivono. Cosa fare?

Innanzitutto, poniamoci un obiettivo: alla fine di un tot di tempo (un bimestre, un ciclo scolastico: dipende) voglio che tendenzialmente tutti gli studenti sappiano produrre testi di una certa qual tipologia (articolo, saggio, analisi letteraria, ecc.) rispettandone le regole e caratteristiche.

Posto l’obiettivo generale, sarà il caso di cominciare ad entrare più in dettaglio.

Punto primo: riconoscere e definire cosa contraddistingue un testo scritto bene. Quanta paratassi, quanta ipotassi? Quanto (e quale) lessico va bene? Ho evidentemente bisogno di uno standard per poter dire se le cose sono andate bene o male. Uno studio come questo fornisce molte possibili risposte ed è un ottimo punto di partenza.

Punto secondo: quali esercizi far fare, e con quale frequenza, perché gli studenti possano effettivamente migliorare? Riassunti? Scalettature? Domande stimolo? Compiti di realtà? Quanto funzionano questi o altri esercizi? Come alternarli ed integrarli?

Punto terzo: come correggere rapidamente ed efficacemente la mole di scritti che inevitabilmente si produce? Come si fa a fornire quanto più feedback possibile agli studenti? Quando si può dire “Ok, hanno imparato qualcosa”?

Una volta che avremo risposto a queste domande (e a domande analoghe per fisica, chimica, storia, lingue straniere, ecc.) potremo anche toglierci la curiosità di vedere quanto “digitale” o quanta “innovazione” ci abbiamo messo dentro, ma non ne avremo fatto dei feticci, né in un senso, né nell’altro.

Mi sembra alla fine una gran banalità, ma forse è il caso di ricordarlo.

Immagine: Wikipedia Commons