La famosa analisi del testo

Una variazione su un punto fermo della didattica umanistica, con polemiche spero non inutili.

Mi rendo conto sempre di più che c’è un fraintendimento di fondo su cosa vuol dire “analisi del testo”. Questa attività a scuola spesso è un lavoro certosino, diuturno, faticoso e che lascia un’impressione di sterilità. Si trasforma in un esercizio di erudizione pedante o di ripetizione mnemonica, ed in ogni caso non favorisce il rafforzamento dello studente come lettore autonomo.

Il più delle volte i miei studenti leggono un testo e si preoccupano di fare una brutta analisi del testo, nel timore di “non capirlo”. Io trovo che “capire un testo” sia triviale, e non sia il punto.

Si può essere acutissimi e non capire le intenzioni profonde di un testo, perché non ci si entra in sintonia, perché non interessa, o perché le intenzioni profonde del testo non erano chiare nemmeno a chi lo ha scritto.

Il testo da analizzare non è un indovinello, non è un rebus da sciogliere. Certo, i “significati” ci sono, mica no, ma spesso sono opinabili, mediati, sfumati. Quel che credo sia importante in un commento che non sia strettamente filologico, bensì personale (quale quello che si richiede a scuola) è non tanto l’abilità di spiegarne il significato, manco fosse un articolo di legge, ma la capacità di descrivere le proprie reazioni al testo.

Di un testo si può, anche senza capirlo stricto sensu, percepire il tono, il registro, il significato letterale, qua e là anche qualcuna delle famose figure retoriche, ma poi il punto sono le nostre reazioni: si può notare che in un certo punto il tono del testo è allegro, poi subito dopo affranto. Altre volte salta agli occhi come il testo parli di cose umili ma con parole difficili, o viceversa, e può capitare che quel che leggiamo mostri altre combinazioni ancora. A volte un testo piglia a parlare di Dio, o del tempo che scorre, o a usare immagini sensuali oppure orrorose, a seconda del caso.

Di tutto questo posso anche non capire nulla di nulla, ma se sono vigile, sarò abbastanza presente a me stesso da registrare le mie percezioni e i miei dubbi per poi metterli su carta, elaborando in parole la mia stessa confusione. Posso articolare le mie difficoltà e spiegare quel che vedo anche se si tratta di un’immagine non ben ricomposta in un insieme compiuto.

Ma a quel punto che altro si può chiedere ad un lettore? Io, come prof., mi dichiaro più che soddisfatto. Anche perché un lettore qualsiasi, una volta che abbia espresso i propri dubbi in forma intellegibile, probabilmente qualche puntino comincia ad unirlo, anche quando sia molto inesperto, e a vedere significati più strutturati. Ma l’importante non sono questi ultimi e pur gratificanti risultati, bensì la capacità di reagire e descrivere le proprie reazioni. Nient’altro.

Ovviamente più si legge e meglio riesce questo lavoro: gli echi, il contorno storico-letterario, i parallelismi e le contrapposizioni con quanto già si conosce sono ottimi spunti ed elementi di analisi, ma anche chi ne ha meno può cimentarsi in quella che non è più una caccia al tesoro alla figura retorica o al concetto storico-letterario, ma una espressione di sé e dei propri pensieri.

Qui di seguito come io analizzerei la poesia che è uscita quest’anno alla maturità, “La via ferrata” di Giovanni Pascoli, secondo questi miei principi. La propongo in varie versioni di sviluppo, da più simile alle analisi degli studenti a più vicina al mio ideale. E’ comunque un’approssimazione (mi è difficile scrivere male come i miei studenti), ma almeno vorrei indicare quali sono le cose essenziali e come si può arrivare ad un’analisi profonda senza passare dalla pendanteria retorica (per dire poi alla fine cose nemmeno particolarmente sconvolgenti). In corsivo le aggiunte nella seconda versione, in grassetto senza corsivo le aggiunte nella terza. Alcune frasi vengono eliminate o riformulate qua e là, tra una versione e l’altra, ma è roba di poco.

Prima versione

“La via ferrata” è una Poesia di Pascoli incentrata sulla ferrovia. Nella prima strofa si dice che la ferrovia passa tra argini su cui pascolano le mucche, ragion per cui siamo in un ambiente campagnolo. E’ un paesaggio bello e tranquillo (le mucche sono loro stesse tranquille) in cui la ferrovia brilla, cosa che fa pensare ad una giornata piena di sole, forse estiva.

Nella seconda strofa vengono menzionati i pali che uno dietro l’altro tengono in aria i fili del telegrafo. Qui già non si parla più di ferrovia, ma i pali del telegrafo sono anche loro un elemento di moderna tecnologia che viene descritta con eleganza attraverso “trama delle aeree fila” e col “fuggente ordine”. Il tono della poesia qui è neutro, né allegro, né triste (prima però c’erano le mucche, con la loro calma, a rendere tranquilla l’atmosfera). Il cielo di perla non saprei come interpretarlo. E’ il cielo grigio di agosto?

La terza e ultima strofa è più complicata da leggere e non è subito chiara. Però alcuni elementi spiccano: si parla di “gemiti”, “ululi”, di “femminil lamento”. Prima non c’era nulla di tutto questo e nell’insieme sembra questa strofa sorprende e confonde il lettore. Curiosa più di tutte è l’immagine dei fili che diventano un’immensa arpa sonora. Un’immagine bellissima, elegante, preziosa, applicata ai fili del telegrafo, e in un momento in cui il tono è diventato cupo e doloroso. Non so il perché di questa cosa, ma il contrasto si nota subito.

Seconda versione

“La via ferrata” è una Poesia di Pascoli incentrata sulla ferrovia. Nella prima strofa si dice che la ferrovia passa tra argini su cui pascolano le mucche, ragion per cui siamo in un ambiente campagnolo. E’ un paesaggio bello e tranquillo (le mucche sono loro stesse tranquille) in cui la ferrovia brilla, cosa che fa pensare ad una giornata piena di sole, forse estiva. Questa tranquillità e piacevolezza all’inizio della poesie non è rara in Pascoli. Anche ne “L’assiuolo” l’alba lattiginosa viene descritta con grande piacevolezza e dolcezza, così come sono amabili le campane e la situazione domenicale di “Alba festiva”.

Nella seconda strofa vengono menzionati i pali che uno dietro l’altro tengono in aria i fili del telegrafo. Qui già non si parla più di ferrovia, ma i pali del telegrafo sono anche loro un elemento di moderna tecnologia che nella “trama delle aeree fila” e nel “fuggente ordine” viene descritta con eleganza. Il tono della poesia qui è neutro, né allegro, né triste (prima però c’erano le mucche, con la loro calma, a rendere tranquilla l’atmosfera). Il cielo di perla rimanda forse anch’esso alla calura estiva. Il fatto che qui il tono sia impercettibilmente mutato non è probabilmente un caso. Un tale slittamento si nota anche nelle poesie già menzionate in relazione alla prima strofa e generalmente questo preannuncia un cambiamento radicale.

E infatti nella terza e ultima strofa, che è più complicata da leggere e non è subito chiara, alcuni elementi spiccano subito: si parla di “gemiti”, “ululi”, di “femminil lamento”. Prima non c’era nulla di tutto questo e nell’insieme sembra questa strofa sorprende e confonde il lettore. Curiosa più di tutte è l’immagine dei fili che diventano un’immensa arpa sonora. Un’immagine bellissima, elegante, preziosa, applicata ai fili del telegrafo, e in un momento in cui il tono è diventato cupo e doloroso.

Il modo in cui si mescolano la meraviglia della natura e della campagna, che Pascoli amava e celebrava nella sua poesia con toni tutt’altro che retorici, e la situazione psicologica evocata da gemiti, ululi e dal lamento, è tipico per Pascoli. La natura è un idillio da cui il poeta e in generale l’essere umano è scacciato, ma lo stupore e la fascinazione non sono venuti meno: la natura rimane di eccezionale bellezza. Questo rende tanto più amara la condizione dell’essere umano che all’interno di questo quadro idillico trova echi dolorosi della propria condizione. In realtà, anche il suono creato dai fili appesi ha una sua bellezza, ma questo non fa che accentuare lo strappo esistenziale del poeta.

Non è la prima volta che il poeta introduce nel paesaggio agreste un tono di lamento, e più specificamente di lamento femminile: in “Lavandare” il procedimento era simile, incarnato in quel caso dai canti mesti delle lavandare. Lì però c’era un aratro -oggetto tradizionale e abbandonato a sé stesso- a far da simbolo della condizione umana, qui due meraviglie della modernità: il treno e il telegrafo. Il treno non viene più menzionato dopo la prima strofa, il telegrafo invece, elemento estraneo alla campagna, “nuovo”, diventa messaggero di dolore e angoscia. Ciò è in linea con l’atteggiamento di Pascoli per il “nido” familiare che egli voleva proteggere dal mondo esterno.

Terza versione

“La via ferrata è una Poesia di Pascoli che per struttura ed impianto mostra le principali caratteristiche della poesia simbolista di cui Pascoli è il maggior esponente italiano al volgere del secolo. L’inizio è descrittivo e piano, così poco problematico che, se non fosse per la maggiore qualità poetica, potrebbe essere un bozzetto di Cardarelli.

Nella prima strofa si dice che la ferrovia passa tra argini su cui pascolano le mucche, ragion per cui siamo in un ambiente campagnolo. E’ un paesaggio bello e tranquillo (le mucche sono loro stesse tranquille) in cui la ferrovia brilla, cosa che fa pensare ad una giornata piena di sole, forse estiva. Questa tranquillità e piacevolezza all’inizio della poesie non è rara in Pascoli. Anche ne “L’assiuolo” l’alba lattiginosa viene descritta con grande piacevolezza e dolcezza, così come sono amabili le campane e la situazione domenicale di “Alba festiva”.

Nella seconda strofa vengono menzionati i pali che uno dietro l’altro tengono in aria i fili del telegrafo. Qui già non si parla più di ferrovia, ma i pali del telegrafo sono anche loro un elemento di moderna tecnologia che nella “trama delle aeree fila” e nel “fuggente ordine” viene descritta con eleganza. Il tono della poesia qui è neutro, né allegro, né triste (prima invece c’erano le mucche, con la loro calma, a rendere tranquilla l’atmosfera). Il cielo di perla rimanda forse anch’esso alla calura estiva. Il fatto che qui il tono sia impercettibilmente mutato non è probabilmente un caso. Un tale slittamento si nota anche nelle poesie già menzionate in relazione alla prima strofa e generalmente questo preannuncia un cambiamento radicale. E infatti nella terza e ultima strofa, che è più complicata da leggere e non è subito chiara, alcuni elementi spiccano subito: si parla di “gemiti”, “ululi”, di “femminil lamento”. Prima non c’era nulla di tutto questo e nell’insieme sembra questa strofa sorprende e confonde il lettore. Curiosa più di tutte è l’immagine dei fili che diventano un’immensa arpa sonora. Un’immagine bellissima, elegante, preziosa, applicata ai fili del telegrafo, e in un momento in cui il tono è diventato cupo e doloroso.

Il modo in cui si mescolano la meraviglia della natura e della campagna, che Pascoli amava e celebrava nella sua poesia con toni tutt’altro che retorici, e la situazione psicologica evocata da gemiti, ululi e dal lamento, è tipico per Pascoli. La natura è un idillio da cui il poeta e in generale l’essere umano è scacciato, ma lo stupore e la fascinazione non sono venuti meno: la natura rimane di eccezionale bellezza. Questo rende tanto più amara la condizione dell’essere umano che all’interno di questo quadro idillico avverte echi della propria condizione dolorosa. In realtà, anche il suono creato dai fili appesi ha una sua bellezza, ma questo non fa che accentuare lo strappo esistenziale del poeta, o l’ironia tragica della condizione umana.

Non è la prima volta che il poeta introduce nel paesaggio agreste un tono di lamento, e più specificamente di lamento femminile: in “Lavandare” il procedimento era simile, incarnato in quel caso dai canti mesti delle lavandare. Lì però c’era un aratro -oggetto tradizionale e abbandonato a sé stesso- a far da simbolo della condizione umana, qui due meraviglie della modernità: il treno e il telegrafo. Il treno non viene più menzionato dopo la prima strofa, il telegrafo invece, elemento estraneo alla campagna, “nuovo”, diventa messaggero di dolore e angoscia. Ciò è in linea con l’atteggiamento di Pascoli per il “nido” familiare che egli voleva proteggere dal mondo esterno.

Gli elementi simbolici, dunque, emergono chiaramente anche ad una prima lettura. L’elemento simbolico (qui forse meno caratterizzato dalla ripresa fonico-onomatopeica cui Pascoli ricorre spesso) è ciò che lo avvicina alla poesia europea coeva. Non aveva forse detto Baudelaire, in “Corrispondenze”, che la natura è una foresta di simboli e che “sussurra” all’uomo? Lo è anche per Pascoli, anche se il messaggio è funereo e angoscioso. In questo senso, si può accostare Pascoli alla pittura espressionista: i paesaggi di Van Gogh e di Munch non sono semplice descrizioni dello spazio, ma -per usare un’espressione abusata ma corretta- paesaggi dell’anima.