Nuove letture sulla didattica per competenze

Pensieri suggeriti dalla lettura di “Closing the writing gap” di Alex Quigley e l’ormai vecchiotto “Quaderno della Ricerca” della Loescher, “Per una letteratura delle competenze”.

La ragione per cui ho letto un quaderno della ricerca Loescher di nove anni fa sta nel fatto che Academia me l’ha proposto ora. Il libro di Quigley, invece, è un’uscita recentissima che addirittura aspettavo già da prima che uscisse. Se ne parlo insieme è perché mi sembra che i 9 anni che li separano alla fine non siano un grande ostacolo, e mi pare che il quaderno non sia invecchiato rispetto a cose più recenti che mi capita di leggere, nel bene e nel male. O magari è solo che sono pigro, vai a sapere. Sia come sia, un confronto e una riflessione tutto sommato ci stanno, visto che nel quaderno si parla di competenze in italiano e nell’altro ci si dedica ad una delle competenze più importanti che la scuola coltiva, la scrittura.

Quigley apre il suo libro con la proposizione di un problema, “Come insegnare a scriver bene a tutti quanti, ma proprio tutti?” e poi procede metodicamente a esporre quali sono i problemi della didattica della scrittura, cosa può funzionare, quali sono le caratteristiche della scrittura argomentativa nei vari campi, come considerare certe abitudini didattiche più o meno tradizionali o più o meno invalse, come considerare le suggestioni della ricerca e infine conclude il suo discorso con considerazioni “per i prossimi passi”.

“Per una letteratura delle competenze” invece è una miscellanea tenuta insieme da un progetto complessivo di ricerca-azione didattica denominato “Compìta”, che aveva lo scopo di accompagnare l’introduzione dell’allora nuova “didattica per competenze” nella scuola italiana. I vari capitoli alternano proposte didattiche concrete a riflessioni pedagogico-didattiche, talora anche con alcune differenze di vedute.

La differenza tra i due libri, senza contare l’ovvio fatto che quello di Quigley è evidentemente più compatto e solido, visto che è scritto da una persona sola, è lo scarto netto in termini di praticità e concretezza.

Non sono sicuro di essere d’accordo con tutto quel che dice Quigley, ma almeno capisco quel che mi sta suggerendo di fare e, qualora decidessi di seguire qualche suo consiglio, saprei cosa fare. Lo trovo facile da seguire, e non solo perché alla fine di ogni capitolo c’è un agile riassunto.

Non posso dire la stessa cosa del “Quaderno della ricerca”. O meglio: lo posso dire solo in parte, di alcuni interventi -i migliori del libro- in cui insegnanti di scuole e classi diverse raccontano cosa hanno fatto in classe. Il grosso dei lavori del libro però sembra piuttosto preoccupato di lavorare su tassonomie e definizioni che dopo tre SSIS, un concorso vinto, innumerevoli letture pedagogico didattiche e corsi di aggiornamento, continuo a trovare sfuggenti. Tutti citano una bibliografia ripetitivamente ricorsiva (fondamentalmente Todorov, Perrenoud, Citton, Gardner e Nussbaum) e il grosso delle riflessioni è su grandi temi come il cambiamento negli stili cognitivi dovuto a internet, la fine della letteratura (a questo alcuni nel libro lucidamente si sottraggono, per fortuna), la globalizzazione. ecc.

Lo spettro dialettico che si scorge alle spalle di tutti questi discorsi è la didattica tradizionale trasmissiva e nozionistica, che tutti ovviamente respingono ed esecrano, sia pure con qualche diversa sfumatura.

Non è solo che tutte queste definizioni, spogliate del loro accademichese, sembrano piuttosto vuote o adiafore. È che alla fine della giostra gli autori del quaderno non sembrano rendersi conto che alla fine stanno riproponendo sempre le stesse identiche cose ma con nomi nuovi.

Magari ora le chiameremo Unità d’Apprendimento (e non più Unità didattiche o che so io), magari ora faremo dei gran cappelli su come lo studente debba essere attivato e reso protagonista, di come sia importante favorire la “riappropriazione” del materiale didattico, ma a leggere con appena appena un po’ di attenzione, salta fuori che le proposte didattiche sono assolutamente identiche a prima e in alcuni casi anche molto buone (come nelle proposte dei prof. del liceo Giulio Cesare di Roma). Si è solo ripittato il gergo.

A me questo riesce assolutamente irritante, non ci posso far nulla. Quindi mi sa che per ora continuo con le mie letture anglosassoni e buonanotte alle elucubrazioni italiane.

Solo una cosa: la didattica trasmissiva tradizionale è talmente vituperata da farmi venir voglia di recuperarla. Resisterò a questo impulso perché lo schema: “spiego-impari, ripeti”, cui segue immancabilmente “dimentichi” è effettivamente scarso, ma suggerisco un’idea…forse quella scuola non è mai stata davvero egemone. O meglio: è stata portata avanti da eserciti di docenti nel corso dei decenni, ma forse ciò dipende non dal fatto che la pedagogia ‘900 era obnubilata da chissà quale forma di stupidità, ma dal fatto che gli insegnanti validi, ieri come oggi, e non appiattiti sulla routine, non erano tanti. Quelli bravi hanno prodotto tonnellate di ottima didattica, anche senza scomodare i grandi nomi, e quella semplificazione dello schema spiegazione-interrogazione (che rimane povero e comunque troppo diffuso) è forse soltanto un bersaglio polemico facile che vien comodo per contrapporgli qualcosa di meglio. La didattica mediocre è sempre esistita ed è stata sempre imperante, ma forse non è mai stata sugli allori, o celebrata, come pensiamo oggi. Sarebbe il caso di passare oltre, forse.

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